Da qualche giorno è finalmente ufficiale la nascita del progetto PPK (Project Pizza Korea?!?) che porterà all'apertura di ben 50 pizzerie "La figlia del Presidente" in Corea del Sud.
La famiglia Cacialli-Messina, titolare del marchio, sarà coinvolta nella formazione dei pizzaioli e nella selezione delle materie prime.
E' la prima volta che una delle famiglie storiche della pizza napoletana è coinvolta in una operazione commerciale di tale portata, destinata a crescere ancora con l'apertura di ulteriori locali in Cina, Giappone ed Australia.
La rilevanza dell'evento, che abbiamo avuto il piacere di festeggiare con Maria, Felice ed Armando in una bella serata organizzata da Marina Alaimo, non può non stimolare una riflessione di più ampio respiro che interpelli tutto il mondo della pizza verace napoletana.
Può Napoli riappropriarsi della pizza? Quali strategie adottare per fare in modo che la pizza verace napoletana possa essere straordinario motore di crescita economica per la nostra regione?
Domande che presumo di non essere l'unico strampalato blogger a porsi e che, ad oggi, pare non abbiano avuto grandi risposte.
Non più di un mese fa, mi sono trovato a discutere con altri amici appassionati di pizza, e non tutti si sono mostrati d'accordo con questa visione, sottolineando al contrario l'artigianalità come l'unica strada per potere esprimere la "veracità" dell'esperienza.
Probabilmente sarò stato infelice nell'esporre il mio punto di vista; la veracità di una pizzeria a Napoli non si esporta, ne si standardizza: le persone, le strade, le voci, gli odori, i rumori (anche gli schiamazzi) che compongono l'atmosfera dei nostri locali restano a Napoli e solo qui si dovrà venire per goderne.
Diverso è il prodotto pizza. Un grande pizzaiolo, in ogni parte del mondo, saprà scegliere, tra quelli disponibili, gli ingredienti che gli consentiranno di fare una pizza certamente buona. Gli avventori ne godranno il sapore, il pizzaiolo metterà su un bel gruzzoletto, il proprietario del locale conterà bei guadagni alla fine della serata.
Ma quanto di questo denaro "rientrerà" in Campania? La nostra strepitosa filiera del food quanto ne beneficerà? Certo, il buon pizzaiolo potrà anche scegliere prodotti nostrani per fare la sua pizza a San Francisco, ma potrebbe anche orientarsi su una scelta locale, barattando la veracità con il miglior prezzo.
Il ragionamento è identico, ma moltiplicato per cento, se parliamo di grandi brand della pizza.
L'esempio in positivo è costituito dalla catena Rossopomodoro: nonostante la maggioranza non sia più in mani italiane, continua a preferire i prodotti campani; ed è la scelta sulla quale verosimilmente si orienteranno i Cacialli-Messina nella loro avventura coreana.
L'esempio opposto è rappresentato dalle grandi multinazionali della pizza che si spartiscono qualcosa come 24 miliardi di dollari all'anno, soldi che non sfiorano nemmeno Napoli e la Campania ( l'unica italiana è Spizzico, con sede a Milano, che sappiamo bene non usare nostri prodotti) ma prendono la via del Kentucky, di Madrid o di Berlino.
Dunque si aprono scenari importanti che pretendono dei seri orientamenti programmatici da parte dei produttori, dei consorzi, delle associazioni di categoria e soprattutto delle istituzioni, per essere affrontati in modo vincente.
In una sorta di brainstorming con me stesso, scatenatosi durante una partita ad un Risiko della pizza, eccomi interpretare l'onirico ruolo del promotore della pizza napoletana nel mondo, del Salvatore della economia campana con poteri esecutivi immediati, dell'elaboratore di tre pensieri banali buttati al vento (sorseggiando una fresca birretta), nella megalomane speranza che possano essere da stimolo per ragionamenti più sensati, tesi a realizzare i suddetti orientamenti.
La cultura della pizza napoletana.
Per l'americano medio, la pizza è nata negli Stati Uniti. Ai colesterolizzatori (colonizzatori culturali fondati sul colesterolo), che sono riusciti a "colonizzarci" con i buns, gli hamburger, i barbeque (ma anche agli esportatori di Nouvelle cousine o di pesce crudo), dovremo restituire pan per focaccia (anzi il contrario) insegnando loro la cultura della pizza verace napoletana, dalla preparazione manuale al dogmatico uso di ingredienti campani, dal forno a legna alla meravigliosa filosofia che c'è nel mangiarla a portafoglio;
L'industria artigianale
Aumentare i livelli di produzione conservando alti standard qualitativi, puntando sull'idea di industria artigianale; perchè storcere la bocca quando eccellenze del food italiano hanno già percorso con successo questa via? E' possibile decuplicare lo spazio dedicato all'agricoltura, all'allevamento alla trasformazione nella nostra regione, pur mantenendo la produzione a livelli di eccellenza.
Consorziarsi, associarsi, fare rete
Insomma, fare sistema e non farsi la guerra! Mozzarella di bufala campana e San marzano nocerino sarnese lo hanno già fatto, sarebbe interessante accadesse per i produttori di fior di latte dei Lattari o magari per un consorzio di oli evo campani, di costruttori di forni a legna o di produttori di legna certificata.
Terminato il mio breve delirio di onnipotenza, restano però delle cifre da capogiro, realizzate con prodotti che di pizza hanno solo il nome e sulle quali continuare a riflettere...
70.000.000.000 di euro (settantamiliardidieuro!) è il giro di affari che crea il prodotto pizza ogni anno nel mondo.
Le più grandi catene di pizzerie.
- Pizza Hut (kansas) 11200 pizzerie in 90 paesi, 160.000 dipendenti, 9 miliardi di fatturato;
- Domino's (Michigan), 10.000 locali in 70 paesi, 6 miliardi di dollari di fatturato;
- Spizzico (Milano), 200 ristoranti, 2100 dipendenti, 5,6 miliardi di fatturato;
- Papa John's pizza (kentucky), 3900 pizzerie, 21.000 dipendenti, 1,5 miliardi di fatturato;
- Pizza express (Londra), 504 pizzerie in 13 paesi, 760 milioni di euro;
- Vapiano (Bonn), 150 ristoranti in 29 paesi, 386 milioni di euro di fatturato;
- Telepizza (Madrid), 1025 pizzerie, 200 milioni di euro;
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